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martedì, Marzo 19, 2024
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Autismo: sistema immunitario ha un ruolo nell’insorgenza

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Cambiamenti specifici in un sistema immunitario iperattivo possono contribuire all’insorgenza dell’autismo nei topi. Lo rivela una nuova ricerca del California Institute of Technology negli USA, che ha scoperto un collegamento tra irregolarita’ nel sistema immunitario durante la gravidanza e l’autismo. La ricerca, l’ultima di una serie di studi del Caltech sul ruolo del sistema immunitario nella’autismo, e’ stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. “Abbiamo creato un modello animale con femmine di topi incinte in cui scatenato la stessa risposta immunitaria che avrebbero avuto a seguito di un’infezione virale. Questa semplice reazione si e’ tramutata in anomalita’ comportamentali e neuropatologie di tipo autistico nella prole” ha spiegato Elaine Hsia, ricercatrice a capo dello studio. “I nuovi nati presentavano i classici segnali di comportamento autistico. In seguito, abbiamo analizzato il loro sistema immunitario e scoperto numerosi parallelismi con le persone che soffrono di autismo, cioe’ iperattivita’ del sistema e bassi livelli di cellule T che riducono la risposta immunitaria”. I ricercatori sottolineano che i risultati sui topi non sono immediatamente trasferibili anche sugli esseri umani, ma che esiste una relazione tra cambiamenti del sistema immunitario nel periodo prenatale e l’insorgenza dell’autismo.

Messina: inaugurato al Policlinico nuovo centro di ricerca clinica per il trattamento dell’autismo

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Una mattinata intensa per celebrare due realtà assistenziali significative. Sono stati inaugurati oggi – al policlinico “G. Martino” di Messina – alla presenza dell’Assessore regionale alla Salute Massimo Russo, i locali che ospitano al padiglione NI il Pervasive Healthcare Center (PHC), centro di ricerca clinica, riabilitazione e teleriabilitazione specializzato per il trattamento dell’autismo e, al padiglione H, il Day Hospital oncologico con UFA. Un incontro quello di stamattina, iniziato nell’aula magna del padiglione NI, dove i diversi protagonisti coinvolti si sono confrontati mettendo in evidenza obiettivi raggiunti e prospettive future. Prospettive di cura e assistenza che trovano conferma nelle parole di chi quelle cure, direttamente o indirettamente, le ha vissute sulla propria pelle e in famiglia; come la mamma di una bimba di tre anni che, nel raccontare la storia della figlia, ne ha descritto i notevoli progressi, giunti giorno per giorno grazie a una terapia e ad una assistenza continua.

“Una testimonianza – ha detto l’Assessore Massimo Russo – che è solo l’effetto di un processo in cui non abbiamo fatto nulla di straordinario, se non il nostro dovere. Quella celebrata oggi è soprattutto una metodologia di lavoro che porta frutto grazie all’impegno di chi ci ha creduto. Abbiamo sfruttato il momento di crisi economica come una opportunità per pianificare nuove azioni sulla scorta delle risorse disponibili e creare le basi per una Sicilia normale, per una sanità normale”.

I locali che inauguriamo oggi – ha sottolineato il Direttore Generale dell’AOU “G. Martino”, dott. Giuseppe Pecoraro, sono soprattutto il risultato di un progetto di coerenza su cui abbiamo scelto di investire creando le condizioni per migliorare l’offerta assistenziale. Si tratta di due reparti già operativi: da un lato un centro che punta sulla diagnosi precoce per bambini affetti da autismo; dall’altro una realtà che incide su percorsi diagnostici terapeutici ben precisi e che – grazie alla presenza dell’UFA – offre maggiore sicurezza al paziente assicurando al tempo stesso efficienza dal punto di vista finanziario.

Controllo, studio e ricerca: ricerca che gioca come sempre un ruolo determinante e che ha fatto passi da gigante in tema di autismo; un aspetto, quest’ultimo, messo in risalto anche dal Rettore prof. Francesco Tomasello, che ha evidenziato come l’Università abbia investito su questo fronte: “vi sono spazi e margini di miglioramento per poter offrire a questi bambini le migliori opportunità di trattamento”.

Il direttore dell’IFC – CNR dott. Eugenio Picano ha poi ribadito come attraverso il PHC – frutto della convenzione firmata tra l’AOU “G. Martino” e l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa – la ricerca abbia “preso la forma dell’acqua” e si sia concretizzata in un centro specializzato, presente a Messina e unico in Italia, che punta sulla personalizzazione dell’intervento utilizzando protocolli internazionali. Il metodo adottato è quello dell’ESDM (Early Start Denver Model), approccio terapeutico efficace per l’autismo precoce impostato sul gioco e rivolto a tutti i settori dello sviluppo.

All’incontro erano presenti tra gli altri anche l’Ing. Ottavio Zirilli, Responsabile Area della ricerca del CNR di Pisa, la Dott.ssa Maria Luisa Scattoni, dell’Istituto Superiore di Sanità, il prof. Gaetano Tortorella, direttore dell’UOC di neuropsichiatria infantile del policlinico, il prof. Giuseppe Altavilla, direttore UOC Oncologia Medica con hospice e il prof. Achille Caputi, direttore UOSD di farmacologia clinica.

A Salerno un centro per l’autismo unico al Sud

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Salerno all’avanguardia nell’assistenza ai bambini autistici ed alle loro famiglie. Oggi il Comune di Salerno, l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e l’Associazione “Una breccia nel muro” hanno siglato un protocollo d’intesa per la realizzazione di un centro per il sostegno e la cura dei bambini colpiti da autismo.

Autismo: meno rischi se mamma assume acido folico in gravidanza

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L’assunzione di integratori di acido folico durante la gravidanza potrebbe ridurre il rischio che il bambino sviluppi l’autismo. La ricerca e’ opera della University of California Davis School of Medicine ed e’ stata pubblicata sulla rivista ”American Journal of Clinical Nutrition”. Secondo gli studiosi, le donne che consumano la dose raccomandata di acido folico, la forma sintetica della vitamina B9, durante i primi mesi di gravidanza potrebbero effettivamente diminuire le probabilita’ di avere un bambino che soffra di autismo. L’acido folico proteggerebbe contro i problemi nello sviluppo embrionale del cervello facilitando le reazioni di metilazione del Dna che portano dei cambiamenti nel modo in cui il codice viene letto. Nello studio sono state coinvolte 835 donne madri di bambini dai 2 ai 5 anni che soffrivano di autismo e che avevano partecipato allo Childhood Autism Risk from Genetics and the Environment Study fra il 2003 e il 2009. La dose consigliata dai ricercatori e’ in media di 779 microgrammi al giorno.

Autismo: scoperto legame con gene del cervelletto

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Un singolo gene nel cervelletto dei topi e’ apparso collegato all’insorgere di sintomi autistici.Gli scienziati della Harvard Medical School, a quanto si legge su ”Nature”, cancellando questo gene da topi in cui era stato indotto l’equivalente murino del comportamento autistico, sono riusciti a guarire la malattia. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che la rapamicina, un comune immunosoppressore, previene questi sintomi. Il gene in questione e’ associato alla Tuberous Sclerosis Complex (Tsc): circa il 50 per cento di coloro che soffrono di Tsc sviluppano autismo. E’ la prima volta che si scopre un coinvolgimento del cervelletto nell’autismo. Gli studiosi hanno anche scoperto che la somministrazione della rapamicina, soprattutto durante il periodo di sviluppo dei topolini, preveniva la comparsa di sintomi comportamentali di tipo autistico. Presto partiranno alcuni trial clinici che proveranno la efficacia della everolimus, un composto della stessa famiglia della rapamicina, sui disordini neurocognitivi dei bambini.

Stati Uniti: ragazzo autistico sopravvive tre settimane nel deserto

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William Martin Lafever, 28enne americano, è stato ritrovato quasi allo stremo con 20 chili in meno, stanco, disorientato, pelle e ossa, incapace di sollevare le braccia, ma vivo. E’ sopravvissuto tre settimane in uno dei deserti più inospitali del pianeta, quello dello Utah, sopportando temperature torride, fino ai 40 gradi, e cibandosi di sole rane e radici.

 

È uscito vivo dopo aver trascorso tre settimane in uno dei deserti più inospitali del pianeta, l’Escalante, nel sud delloUtah, con temperature che superano i 40 gradi.Protagonista dell’incredibile vicenda William Martin Lafever, 28 anni, affetto da autismo, del quale si erano perse le tracce dall’inizio di giugno.Il ragazzo è stato ritrovato dai soccorritori ad oltre 60 km da Boulder, la cittadina del Colorado da cui era partito per fare un’escursione.Era disorientato, ridotto a pelle e ossa e riusciva a stento a stare in piedi.È riuscito a sopravvivere alle alte temperature, nutrendosi esclusivamente di rane, radici e bevendo l’acqua di un fiume.È stata proprio la pista dell’acqua a portare i soccorritori sulle tracce del giovane. Secondo quanto riportato da fonti stampa, ad alcuni di essi, appositamente addestrati per la ricerca di persone autistiche, è stato insegnato che queste persone sono naturalmente attratte verso l’acqua.L’elicottero ha cosi concentrato le ricerche sul fiume Escalante ed è li che ha avvistato William, fermatosi in quella zona proprio per dissetarsi.Gli stessi soccorritori sono rimasti sbalorditi di fronte al ritrovamento perchè è quasi impossibile che qualcuno possa sopravvivere in quelle condizioni in una zona tanto impervia.«È uno dei terreni più accidentati e inclementi che si possano trovare sulla faccia della terra – spiega il portavoce dello sceriffo della contea di Garfield, in Colorado. Non c’è traccia di anima viva dove William aveva deciso di avventurarsi».«Nella mia carriera – aggiunge Ray Gardner, uno dei soccorritori – non ho mai visto nessuno così magro. Non riuscivo a credere che fosse vivo e sono sicuro che non sarebbe sopravvissuto altre 24 ore».Quando ha visto i soccorsi, William aveva un tale bisogno di contatto umano che all’inizio non è riuscito a mangiare o bere niente, voleva solo parlare.Solo dopo qualche tempo ha bevuto dell’acqua e mangiato una barretta energetica.Il ragazzo è ora ricoverato in condizioni stabili in un ospedale dello Utah.La sua odissea è iniziata il 6 giugno quando all’insaputa del padre ha deciso di fare un’escursione con il suo cane.L’ultimo contatto con la famiglia è stato una telefonata in cui William annunciava al padre che qualcuno lo aveva derubato dei soldi e dell’attrezzatura da escursione.A quel punto l’uomo gli aveva detto di recarsi a Page, in Arizona, dove gli avrebbe mandato dei soldi.Ignorando il suggerimento del genitore, il ragazzo ha deciso invece di avventurarsi lungo il fiume Escalante e da lì prendere una barca verso Page. I piani tuttavia non sono andati come previsto perchè William è rimasto subito senza cibo e da solo perchè il cane lo ha improvvisamente abbandonato. Non perdendosi d’animo si è tolto di dosso il resto dell’attrezzatura ed ha iniziato a camminare nel tentativo di raggiungere la città del’Arizona, a 145 chilometri. Le ore sono diventate giorni, i giorni settimane, fino a quando è stato ritrovato, miracolosamente, dai soccorritori.

La storia della Comunicazione Aumentativa Alternativa

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Solo 60 anni fa l’impossibilità ad esprimersi con il linguaggio orale era considerata un sintomo naturale di una malattia e ne indicava la presenza, il peggioramento, la gravità. Non si tentava di ridurre il sintomo e l’obiettivo di migliorare la qualità della vita non era assolutamente preso in considerazione.

La CAA Comunicazione Aumentativa Alternativa

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Cos’è la Comunicazione Aumentativa Alternativa

Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) è il termine usato per descrivere l’insieme di conoscenze, tecniche, strategie e tecnologie che facilitano e aumentano la comunicazione in persone che hanno difficoltà ad usare i più comuni canali comunicativi, soprattutto il linguaggio orale e la scrittura.

L’ aggettivo “Aumentativa” (traduzione dal termine inglese Augmentative) indica come le modalità di comunicazione utilizzate siano tese non ha sostituire, ma ad accrescere la comunicazione naturale: l’obiettivo dell’intervento deve essere infatti l’espansione delle capacità comunicative tramite tutte le modalità e tutti i canali a disposizione.

La C.A.A. non è quindi sostitutiva del linguaggio orale e neppure ne inibisce lo sviluppo quando questo è possibile; si traduce invece sempre in sostegno alla relazione, alla comprensione e al pensiero. L’aggettivo “Alternativa” viene usato sempre meno perché presuppone di sostituire le modalità comunicative esistenti.

La Comunicazione Aumentativa e Alternativa rappresenta oggi un’area della pratica clinica che cerca di ridurre, contenere, compensare la disabilità temporanea e permanente di persone che presentano un grave disturbo della comunicazione sia sul versante espressivo, sia sul versante ricettivo, attraverso il potenziamento delle abilità presenti, la valorizzazione delle modalità naturali e l’uso di modalità speciali.

La C.A.A. è quindi tutto quello che aiuta chi non può parlare a comunicare; è un approccio e non una tecnica riabilitativa; riconoscendo e valorizzando la persona tiene insieme la dimensione del corpo e della mente. Non si oppone, ma integra qualsiasi altro intervento riabilitativo ed educativo che spesso, purtroppo, non si confronta con la vita o si confronta troppo poco con quelle che sono le condizioni necessarie per migliorare la qualità della vita.

E’ ormai esperienza di molte famiglie e di professionisti che lavorano nel campo della C.A.A., come tecniche, strumenti e ausili anche molto sofisticati non possono risolvere le difficoltà espressive ed i complessi bisogni comunicativi di coloro che sono per questo definiti come persone con complessi bisogni comunicativi. Se gli strumenti, le tecniche e gli ausili non vengono inseriti in un preciso progetto di C.A.A., non riescono a sviluppare un’effettiva interazione comunicativa. Spesso non riescono neppure a modificare l’attitudine di dipendenza e passività che frequentemente si instaura nei bambini che sperimentano fin dalla nascita ripetute esperienze di impossibilità di controllo sull’ambiente, esperienze negative, che portano nel tempo ad una minore motivazione a provocare cambiamenti.

Gli scopi della CAA

Lo scopo della CAA è quello di costruire competenze comunicative sia nella persona disabile che nelle persone del suo ambiente di vita. In pratica la C.A.A. si pone l’obiettivo di mettere ogni persona con complessi bisogni comunicativi nelle condizioni di poter attuare scelte, esprimere un rifiuto, un assenso, raccontare, esprimere i propri stati d’animo, influenzare il proprio ambiente e quindi auto-determinarsi diventano protagonista della propria vita.

In Italia sopravvive ancora un approccio oralista ai disturbi della comunicazione e un approccio funzionale, quale quello della C.A.A., spesso non viene adottato neppure quando l’intervento logopedico tradizionale non può realisticamente raggiungere risultati funzionali.

E’ ancora diffusa la convinzione che un intervento di C.A.A. possa inibire o ritardare un’eventuale comparsa del linguaggio orale, anche se emerge dalla letteratura e dalle esperienze cliniche che la C.A.A. non interferisce con la naturale abilità del bambino a sviluppare la comunicazione vocale e verbale.
I bambini infatti, tendono ad usare per comunicare la modalità più rapida, efficace ed accessibile (Mirenda P. 1998). Anche i bambini con un repertorio di suoni limitato, continuano ad usarli per alcuni scopi come ottenere l’attenzione, e i loro genitori sono in grado di discriminare tra i differenti suoni vocalici. Ricerche indicano al contrario che la C.A.A. accelera lo sviluppo del linguaggio orale, aumentando le occasioni di interazione e la conoscenza della lingua. Sopravvivono inoltre diversi pregiudizi da parte degli operatori e familiari delle persone disabili: si pensa che l’intervento di C.A.A. debba essere messo in pratica come ultima spiaggia, che vada proposta a chi abbia raggiunto un certo livello cognitivo, che serva solo per esprimersi, che non sia adatto se esistono problemi di comportamento. In realtà l’intervento di C.A.A. va iniziato il più precocemente possibile, è indicato per tutti coloro che hanno problemi comunicativi, sostiene lo sviluppo cognitivo, la comprensione e il pensiero e infine migliora e contiene i problemi di comportamento.

La C.A.A è indicata per ogni persona che presenta bisogni comunicativi complessi a componente linguistica ricettiva, linguistica espressiva, motoria, cognitiva e visiva. Le condizioni di disabilità che possono richiedere interventi di C.A.A. comprendono condizioni congenite, acquisite, neurologiche evolutive e temporanee.

La storia della Comunicazione Aumentativa Alternativa

Solo 60 anni fa l’impossibilità ad esprimersi con il linguaggio orale era considerata un sintomo naturale di una malattia e ne indicava la presenza, il peggioramento, la gravità. Non si tentava di ridurre il sintomo e l’obiettivo di migliorare la qualità della vita non era assolutamente preso in considerazione.

Quando alcune persone, alcuni anni dopo, hanno sentito questa esigenza, gli sforzi riabilitativi sono andati nella direzione del ripristino del linguaggio orale con risultati spesso frustranti.

La nascita  della CAA

I primi semi per il futuro della CAA sono stati gettati negli anni ‘50. Pionieri in questo campo sono state le persone con grave deficit comunicativo e chi li assisteva. Sono stati loro ad utilizzare per primi tabelle di comunicazione con lettere, simboli, immagini.

Michael Williams, persona con complessi bisogni comunicativi, racconta che nei suoi primi anni comunicava con suoni comprensibili solo ai suoi genitori.

In seguito, per farsi comprendere anche da persone esterne all’ambiente familiare, tracciava dei gesti nell’aria come per scrivere parole. Fino a quando un collega stanco di vederlo gesticolare nell’aria, gli portò una tabella alfabetica, tabella che diede inizio per lui ad una nuova vita.

Tra gli anni ‘50 e ‘70 il progresso delle cure mediche e riabilitative portò ad un aumento di casi di bambini sopravvissuti a nascite premature e di adulti sopravvissuti a ictus, traumi, malattie. Per molti di loro residuavano come postumi, situazioni di grave disabilità motoria e impossibilità a comunicare attraverso il linguaggio orale. Pochi riabilitatori, andando contro corrente, iniziarono a suggerire modi aumentativi per favorire la comunicazione e iniziarono a diffondere i risultati di queste esperienze.

I primi casi di disturbi linguaggio e comunicazione

I primi casi documentati si riferivano a soggetti afasici o affetti da Paralisi Cerebrale Infantile. Bisogna considerare comunque che, malgrado queste eccezioni, i riabilitatori continuavano a privilegiare un approccio oralistico e continuavano a non consigliare il linguaggio dei segni ai sordi, che pur lo usavano nelle loro comunità.

Tra il 1960 e il 1970 si iniziò a non nascondere più la disabilità. John Kennedy e altri personaggi famosi iniziarono a rendere noto che avevano parenti con deficit comunicativi, ciò portò ad una prima iniziale accettazione della disabilità e, quindi, di modalità di comunicazione diverse dal linguaggio orale. Le comunità di sordi anticiparono questo processo di legittimazione di un linguaggio alternativo, esigendo il diritto di essere educati utilizzando il linguaggio dei segni.

Secondo alcuni, gli studi sull’apprendimento di simboli grafici da parte di scimpanzè avrebbe aperto la strada all’idea di proporre simboli grafici a persone con gravi deficit comunicativo e motorio.

Le maggiori capacità prognostiche rispetto ad un utilizzo funzionale del linguaggio orale hanno certamente contribuito a far cessare veri accanimenti terapeutici da parte di logopedisti e a giustificare approcci diversi.

All’ospedale universitario di Jowa City dal 1964 al 1974 venne condotto un primo programma di C.A.A. rivolto a bambini con Paralisi Cerebrale Infantile. Nel frattempo si sviluppava anche l’idea che la tecnologia potesse aggirare la disabilità comunicativa e venivano usate per la comunicazione macchine da scrivere adattate.

I primi ausili tecnologici per la CAA

Il primo ausilio tecnologico specificatamente dedicato alla comunicazione è stato il POSSUM (Patient Operated Selection Mechanism) finanziato dal Polio Research Foundation, usato poi fino alla fine degli anni ‘70.

Vennero sviluppati, soprattutto nel Nord Europa, molti altri ausili che erano però accessibili solo a chi aveva acquisito il codice alfabetico. Molti pesavano fino a 7 kg. e certamente non erano di facile uso nella vita quotidiana.

Nel 1971 Shirley Mac Naughton, con un gruppo di colleghi, avviò a Toronto – Canada – presso l’ Ontario Crippled Children Center un progetto di ricerca, utilizzando i simboli grafici (Blissymbolics) che Charles Bliss aveva inventato con l’intenzione di farne un linguaggio universale per eliminare le barriere e le guerre tra i popoli. Tali simboli, basati sul significato e non sulla fonetica, venivano appresi con facilità anche da chi non riusciva ad acquisire il codice alfabetico e permettevano l’espressione di concetti anche molto sofisticati. I risultati furono entusiasmanti e i simboli Bliss vennero diffusi rapidamente in tutto il mondo.

Per molti anni Blissymbolics è stato il principale sistema grafico utilizzato nel mondo. Prendendo spunto dalle sue caratteristiche e dal suo utilizzo, sono stati via via creati altri sistemi simbolici per specifiche esigenze e categorie di disabilità nella comunicazione.

La diffusione di questi sistemi simbolici ha contribuito ad accelerare il processo di strutturazione di questo nuovo campo clinico, che emergeva sempre di più come un’area specialistica; venivano pubblicati libri, articoli, test, venivano tenute relazioni a convegni e conferenze, organizzati corsi di formazione e attivate presso numerose sedi universitarie del Nord America e del Nord Europa le prime ricerche in campo clinico e tecnologico.

Shirley Mac Naughton ha creato un’organizzazione, il Blissymbolics Communication Institute, successivamente rinominato Blissymbolics Communication International – BCI – (tuttora impegnato nella creazione di nuovi simboli), che ha prodotto una grande quantità di documentazione, libri, materiale d’uso e anche i primi software con simboli. Presso il BCI sono stati organizzati corsi di formazione, frequentati da centinaia di persone provenienti da tutto il mondo. I corsi non riguardavano solo il sistema grafico Bliss, ma il suo utilizzo pragmatico: non veniva cioè proposto solo un metodo, ma un approccio all’interno del quale gli strumenti e i sistemi grafici trovavano una loro indicazione.

Un approccio funzionale per facilitare la comunicazione delle persone non parlanti attraverso modalità non orali, fu considerato legittimo solo verso la fine degli anni ‘70. Una legge americana del 1975 che riconosceva il diritto all’educazione per tutti i bambini con disabilità, e quindi il loro diritto a vivere nella comunità, diede ancora più forza a questa corrente di pensiero riabilitativo anche se molti professionisti continuavano a sostenere che l’uso di modalità diverse sarebbe andato a detrimento di un possibile emergere del linguaggio orale. Tale pregiudizio è ancora presente, come già detto, non solo in molti genitori ma anche in molti operatori della riabilitazione.

Ricerche di questo periodo nel campo della linguistica e dello sviluppo del linguaggio nel bambino, aggiunsero nuovi stimoli a questo approccio alla comunicazione. Molti ricercatori si concentrarono maggiormente sulla funzione anziché sulla forma dell’atto comunicativo e quindi il linguaggio incominciò ad essere visto come un mezzo per raggiungere il fine della comunicazione.

L’evoluzione della logopedia con la CAA

Le terapie logopediche iniziarono quindi a virare dal solo obiettivo di instaurare o ristabilire un linguaggio orale a quello di migliorare la comunicazione con tutti i codici e le modalità possibili. Ciò veniva sostenuto da F. Silverman nel libro “Communication for the Speechless”, tradotto in italiano su iniziativa del Prof. O. Schindler, che primo in Italia affermava l’importanza di migliorare la comunicazione di chi presentava carenza o assenza di linguaggio orale attraverso tutte le modalità possibili.

Dall’inizio degli anni ‘80 iniziarono ad essere pubblicati casi di persone che attraverso programmi di comunicazione, riuscivano a migliorare la qualità delle loro vite. Tali programmi venivano comunque sempre implementati dopo il fallimento di forme tradizionali di terapie del linguaggio.

Nel 1980 e nel 1982 a Toronto si tennero le prime conferenze internazionali sulla “Comunicazione non orale” . Nel corso della conferenza del 1982 venne presa la decisione di creare un’organizzazione esclusivamente dedicata a questo campo clinico. Nel 1983 professionisti di 25 paesi del mondo fondarono a New Lansing (Michigan – USA) l’International Society for Augmentative and Alternative Communication (ISAAC) e decisero di chiamare l’area di interesse Augmentative and Alternative Communication. In questa sede venne raccomandato di utilizzare il termine derivato dal verbo “to Augment”, cioè aumentare, in tutte le lingue dove ciò fosse possibile. Il termine “Aumentativa” doveva chiarire come l’obiettivo dell’intervento dovesse essere quello di incrementare le capacità comunicative esistenti.

In quel periodo il Personal Computer divenne per le persone con disabilità comunicativa una realtà e così pure gli ausili con uscita in voce sintetica o in stampa, perché diventavano sempre più piccoli e maneggevoli. Questi progressi tecnologici sono stati favoriti dalla cooperazione di persone di paesi differenti e provenienti da diverse discipline. In quegli anni i progressi nell’area della tecnologia erano quelli che più sembravano connotare il campo della C.A.A.

Come spesso succede, il grande entusiasmo per la tecnologia portò a considerare gli ausili soluzioni per tutti i problemi; ci volle molto tempo per capire che erano mezzi preziosi solo se utilizzati per precisi obiettivi, occasioni e contesti.

Il riconoscimento scientifico della CAA

In quel periodo si svilupparono numerose ricerche che fornivano conoscenze e teorie di base e contribuirono al riconoscimento scientifico del campo della C.A.A.
I temi emergenti delle ricerche, che hanno motivato dibattiti e relazioni a congressi, hanno via via seguito diversi filoni. Sono state riportate ricerche su quali caratteristiche dei simboli grafici facilitassero l’apprendimento e la memorizzazione degli stessi, ricerche e articoli sull’argomento della “ selezione del vocabolario”, sulle modalità interattive tra il partner parlante e non parlante, ricerche sul ruolo dei simboli grafici nell’acquisizione della lingua e nell’apprendimento della letto- scrittura, ricerche sul controllo dei comportamenti-problema tramite la C.A.A., ricerche sulle tecniche di accelerazione della comunicazione tramite predizione lessicale.

Inoltre avvenivano dibattiti sulla terminologia in C.A.A., venivano svolte indagini sul grado di comprensione del linguaggio sintetico, venivano pubblicati articoli che riferivano l’applicazione della C.A.A. in diverse condizioni di disabilità e ancora ricerche sui diversi modelli di valutazione e intervento in C.A.A., fino alle più recenti ricerche sulla quantificazione dei risultati e sulla posizione della C.A.A. rispetto alla pratica basata sull’evidenza.

Sono tantissime le aree di sviluppo della C.A.A. che hanno portato ad un’evoluzione del pensiero, della metodologia di intervento clinico e dei percorsi di formazione; molte di esse sono alla base di quelli che oggi vengono considerati i principi di base della C.A.A.

La Comunicazione Aumentativa Alternativa in Italia

In Italia la diffusione e lo sviluppo della C.A.A. ha registrato e continua a registrare un ritardo rispetto al Nord America e al Nord Europa. Ancora nel 2009 possiamo ripetere quanto scrissero, riferendosi alla situazione negli USA negli anni ‘80, Zangari, Lloyd e Vicker nell’articolo dal titolo “Augmentative and Alternative Communication: An Historic Perspective” pubblicato sul giornale ufficiale dell’ISAAC: “Augmentative and Alternative Communication” nel 1984: “L’immobilità dei programmi universitari e delle organizzazioni professionali nel campo della comunicazione, tende a sminuire l’importanza di idee nuove che non emergono a livello accademico e che non hanno una solida base sperimentale. Così gli accademici, che giocano un ruolo rilevante nelle organizzazioni professionali non hanno riconosciuto l’importanza e l’influsso della C.A.A. fino agli anni ‘70 e ‘80 e tardano ancor oggi a riconoscere i contributi di coloro che forniscono il servizio diretto”.

Tappe significative nella diffusione della Comunicazione Aumentativa Alternativa in Italia

Le tappe significative nella diffusione della C.A.A in Italia possono essere considerate i primi meeting internazionali del BCI a Catania e a Milano, rispettivamente nel 1983 e nel 1988. Successivamente nel 1989 la formazione del Gruppo Italiano per lo Studio della Comunicazione Aumentativa e Alternativa (GISCAA) e nel 1996 la creazione della prima e, tuttora, unica scuola annuale di formazione in C.A.A. a Milano presso il Centro Benedetta D’Intino onlus. La scuola di formazione è articolata in più seminari e vi collaborano docenti italiani e stranieri. Sono previste inoltre iniziative di II° livello per approfondire argomenti e temi di particolare rilievo nella pratica clinica in C.A.A..

La tappa certamente più significativa per il nostro Paese è stata la fondazione nel 2002 del Chapter ISAAC Italy. ISAAC Italy raduna in Italia le persone interessate e coinvolte nella C.A.A., cioè le persone che utilizzano la Comunicazione Aumentativa e Alternativa, i loro familiari ed amici, professionisti, tecnici ed aziende (come Needius) che distribuiscono in Italia ausili e materiali per la C.A.A. Scopi di ISAAC Italy, oltre a quello di sviluppare gli obiettivi di ISAAC Internazionale, sono quelli di divulgare e promuovere il campo interdisciplinare della C.A.A., facilitare l’accesso alle conoscenze specifiche e diffondere una corretta cultura di C.A.A anche attraverso le conferenze ISAAC in Italia (nel 2005 a Genova, 2007 a Roma, 2009 a Torino) e la traduzione di alcuni articoli e testi di rilevanza per la C.A.A..

Principi di Comunicazione Aumentativa Alternativa

Le strategie di Comunicazione Aumentativa Alternativa sono indispensabili per questi scopi: per esempio, codici o modalità speciali per il Sì e No o strumenti come il vocabolario dei gesti personali quando i gesti usati non sono comprensibili a tutti.

L’identificazione del sistema di comunicazione esistente permette di costruire nuove competenze a partire dalle abilità presenti e di consigliare strategie, strumenti e differenti tipi di ausili di comunicazione speciali (aided) che realmente migliorino le possibilità comunicative. Per raggiungere questo obiettivo è prioritario conoscere i bisogni e le occasioni di comunicazione del bambino in tutti gli ambienti di vita.

Ad esempio, un ausilio con uscita in voce (comunemente chiamato VOCA come acronimo dell’espressione Vocal Output Communication Aids e oggi denominato anche Speech Generating Device – SGD), anche di semplice uso, utilizzato all’interno di una classe con un ben preciso obiettivo comunicativo, è in grado di supportare il coinvolgimento di diversi partner comunicativi e di favorire interazioni frequenti, motivanti e prolungate anche per bambini con gravi difficoltà motorie e con abilità linguistiche e cognitive limitate. Lo stesso VOCA risulta inutile se viene usato a casa con funzione di richiamo, da un bambino che già soddisfa questo bisogno con modalità naturali come suoni vocalici.

Sarebbe inoltre un grave errore sottoporre un bambino a un lungo training per imparare ad “attivare” un VOCA sperando che, anche in mancanza di motivazione e di opportunità comunicative reali, possa imparare abilità pragmatiche come, ad esempio, iniziare o mantenere la conversazione. Gli ausili, le tabelle di comunicazione con simboli o i VOCAs non hanno infatti mai trasformato un utente di Comunicazione Aumentativa Alternativa in un competente comunicatore, soprattutto quando il loro utilizzo non è stato impostato in funzione dei bisogni e degli ambienti di vita.

E’ auspicabile che tutti abbandonino l’errata convinzione che sia sufficiente prescrivere al bambino un ausilio perché questi automaticamente e senza supporto lo adoperi per comunicare.

Gli interventi di Comunicazione Aumentativa Alternativa

Gli interventi di Comunicazione Aumentativa Alternativa. riguardano tutte le varie forme di comunicazione: la comunicazione faccia a faccia, la comunicazione scritta (lettere, sms, e.mail) e la comunicazione a distanza (telefono) e per questi bisogni serviranno soluzioni diverse. Un sistema di comunicazione globale deve considerare in questi casi anche tecnologie complesse o “high-tech”, come ausili con uscita in voce digitale o sintetica, software e hardware speciali. Tali tecnologie nel caso di alcune patologie acquisite hanno un ruolo assolutamente rilevante e spesso vengono usati contemporaneamente ad ausili e tecnologia low-tech (ad es. i pannelli trasparenti con lettere dell’alfabeto chiamati ETRAN, molto usati con persone affette da malattie neurologiche evolutive come la Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA).

Per i bambini i VOCAs con uscita in voce digitale, spesso a tecnologia semplice, sono solo uno dei componenti del sistema di comunicazione globale e vengono generalmente associati a componenti low-tech, come tabelle e libri con simboli.

Come già detto i componenti più importanti sono però le strategie che il bambino e l’interlocutore usano o devono acquisire per rendere più funzionale la comunicazione.

Le opportunità di comunicazione con la Comunicazione Aumentativa Alternativa

Il solo vero prerequisito per intraprendere un intervento di Comunicazione Aumentativa Alternativa è la presenza di reali opportunità di comunicazione (Mirenda P. et altri, 1990). In C.A.A. non sono necessari altri prerequisiti e l’esistenza di alcune abilità non deve quindi essere considerata prerequisito per un intervento di C.A.A.. Si parla in alcuni casi di intervento di comunicazione iniziale; con ciò si intende tutta una serie di interventi rivolti a persone che, indipendentemente dalla loro disabilità e dalla loro età cronologica, necessitano di supporto per “apprendere” che attraverso la comunicazione possono influenzare il loro ambiente di vita.

Spesso si realizza solo tardivamente che alcune persone disabili avrebbero potuto sviluppare delle abilità se solo avessero goduto di opportunità di comunicazione nei primi anni di vita. Chi ha cercato di individuare prerequisiti per la CAA ha solitamente considerato forme simboliche di comunicazione, senza tenere conto che l’acquisizione delle abilità di base facilita il graduale sviluppo di abilità più complesse.

L’intervento iniziale non dipende dal controllo di complessi sistemi o ausili, ma si focalizza sulla capacità dei partner comunicativi di dare significato ai comportamenti, gesti, suoni, azioni spesso non ancora intenzionali e sulla capacità di farli evolvere. L’intervento di comunicazione iniziale trova una sua giustificazione all’interno del campo della C.A.A. anche per la definizione della ASHA (American Speech Language Hearing Association): “ La C.A.A. si riferisce anche ai soli aggiustamenti dei comportamenti degli interlocutori”.

Un intervento di comunicazione iniziale si fonda sulle indicazioni delle linee guida che il National Joint Committee for Communication Needs of Persons with Severe Disabilities ha espresso nel 1992 per affrontare i bisogni comunicativi delle persone con gravi disabilità; tali linee guida così definiscono la Comunicazione: “La comunicazione è un atto per mezzo del quale una persona dà o riceve informazioni sui bisogni, desideri, percezioni, conoscenze e realtà di altre persone. La comunicazione può essere intenzionale o non intenzionale, può implicare segnali convenzionali o non convenzionali, può assumere forma linguistica o non linguistica e può avvenire attraverso modalità orali o altri modi”.

Tuttavia, è ancora notevolmente diffusa la convinzione che un intervento di C.A.A. non possa essere iniziato fino a quando non vengano raggiunti determinati livelli di funzionamento cognitivo, di abilità simboliche, di linguaggio ricettivo e di abilità sociali. La convinzione della necessità di determinati prerequisiti è basata su ricerche relative allo sviluppo comunicativo normale e non a quello di bambini disabili che vivono esperienze, occasioni e stimoli limitati. E’ certamente inutile concentrarsi sull’insegnamento di alcune abilità di base, e ancor meno di forme simboliche di comunicazione, se l’ambiente è privo di opportunità di interazione e non è quindi in grado di stimolarne lo sviluppo.

La C.A.A. non si fonda sull’esercizio, ma su esperienze di reali comunicazioni offerte al bambino. Una delle prime opportunità che dobbiamo proporre ai bambini è, ad esempio, quella di fare scelte in situazioni reali. L’abilità di scegliere dà infatti al bambino la possibilità di influenzare l’ambiente, di crearsi una identità, di migliorare l’immagine e la stima di sé. Offrire scelte è molto più complicato di quanto possa sembrare: ma ancora più difficile è offrire scelte senza obbligare a farle.

L’utilizzo del termine opportunità suggerisce un’importante riflessione: poiché la comunicazione emerge se si danno opportunità, la responsabilità della comunicazione si sposta dalle persone che non parlano a chi le circonda. Del resto, l’importanza delle opportunità di interazione è riconosciuta nel normale sviluppo della comunicazione: tutti noi abbiamo imparato ad usare le parole attraverso stimoli, istruzioni, correzioni e modellamento all’interno di significative esperienze sociali, senza che ci venisse richiesta subito la prova del nostro apprendimento.

Modalità di insegnamento della Comunicazione Aumentativa Alternativa

La C.A.A. deve essere insegnata in modo interattivo e pragmatico e richiede necessariamente che qualsiasi abilità specifica, come imparare i simboli grafici, apprendere una tecnica di selezione dei simboli dalla tabella e imparare a utilizzare un VOCA, venga appresa in situazioni comunicative naturali e realistiche e venga subito tradotta in obiettivi funzionali.

Pertanto, il training in Comunicazione Aumentativa Alternativa non può essere impostato con modalità simili a quelle utilizzate all’interno di normali sedute riabilitative. Non a caso, gli ausili di comunicazione usati esclusivamente in tale contesto, per dimostrare di saperli usare e per rispondere solo a domande, vengono presto abbandonati.

Si può quindi affermare che l’alleanza con i partner comunicativi e un training agli stessi sia fondamentale per la buona riuscita di un programma di Comunicazione Aumentativa Alternativa Infatti, i partner comunicativi possono supportare la comunicazione offrendo contesti stimolanti e vanno quindi aiutati affinché imparino a interagire con successo con chi ha difficoltà comunicative. Per questo devono porre attenzione al proprio linguaggio per favorire la comprensione, devono acquisire diverse strategie: ad esempio, usare lunghi tempi di pausa nel corso degli scambi comunicativi, rispondere ad ogni tentativo di comunicazione, utilizzare domande aperte, seguire gli interessi del bambino, rispettare i suoi tempi e i suoi ritmi e aiutarlo ad esprimere preferenze e scelte, a raccontare e a commentare utilizzando tabelle e ausili.

La modalità migliore di formazione per i partner comunicativi dovrebbe prevedere corsi specifici, partecipazione alle sedute di intervento e frequenti momenti di confronto con gli operatori di riferimento per il progetto di C.A.A. circa l’evoluzione del percorso comunicativo del bambino nella vita quotidiana. Nel caso di bambini con grave disabilità motoria e comunicativa, i momenti di confronto sono particolarmente importanti; permettono infatti di monitorare i comportamenti e le attitudini di impotenza appresa che i bambini spesso acquisiscono in seguito alla difficoltà sperimentata nel controllare e influenzare i propri ambienti di vita. La sottovalutazione di questa condizione ha spesso vanificato gli sforzi di genitori, professionisti ed educatori.

E’ molto importante, nell’ambito di un progetto di C.A.A., individuare uno o più facilitatori che si assumano la responsabilità di supportare gli sforzi comunicativi del bambino, diventando promotori di relazioni con diversi partner comunicativi (compagni di classe, amici, insegnanti, vicini di casa), ed evitando di porsi come unico interlocutore. La scuola è, per esempio, uno degli ambienti che offre ai bambini disabili il maggior numero di occasioni di comunicazione e di interazione. Gli insegnanti di sostegno e gli educatori sono spesso le figure che con maggior successo assumono il ruolo di facilitatori.

I sistemi di C.A.A. sono efficaci se, oltre a essere accompagnati da un training rivolto al bambino, sono condivisi e supportati dalla maggioranza delle persone per lui significative, al fine di evitare una “scissione” tra i vari ambienti di vita.

La tecnica del modellamento

Durante lo sviluppo del linguaggio in bambini con carenza/assenza del linguaggio orale, è importante far loro sperimentare i sistemi di C.A.A. in uso ricettivo.

Questa tecnica, chiamata modellamento, comporta che il partner comunicativo indichi i simboli corrispondenti alle parole chiave mentre parla al bambino. L’uso ricettivo dei simboli è cruciale perché il vocabolario iniziale venga introdotto al bambino in modo ricettivo, prima di chiedergli di usarlo in espressione. Oggi in C.A.A. non si parla più di insegnamento di simboli, ma di esposizione al linguaggio perché i bambini che non parlano imparino ad usare la C.A.A. attraverso lo stesso processo con cui tutti i bambini imparano ad usare la comunicazione verbale e cioè il modellamento in contesti naturali.

Il modellamento rinforza inoltre l’associazione del simbolo al referente; permette al bambino di condividere con un’altra persona la sua modalità di comunicazione, e, se la comunicazione avviene con il supporto della tabella, consolida la memorizzazione e la collocazione del simbolo. Altro aspetto importante del modellamento è l’esposizione del bambino a una costruzione sintattica via via più evoluta.

Valutazione e progetto di Comunicazione Aumentativa Alternativa

La valutazione e la realizzazione di un programma di C.A.A. sono processi dinamici e in progressione e vanno gestiti da operatori formati in Comunicazione Aumentativa Alternativa Nella valutazione bisogna fare proposte che mettano in gioco da subito le competenze del bambino; solo così si può valutare l’effetto che le strategie di C.A.A. hanno sulla comunicazione e sulla partecipazione e si riesce a cogliere la capacità del bambino stesso di modificarsi. E’opportuno inoltre creare fin dal primo incontro di valutazione occasioni comunicative, perché il bambino non solo risponda, ma anche inizi l’interazione. Ad esempio si può raggiungere questo scopo, attuando pause e piccole modificazioni ambientali (tecniche dette “di sabotaggio”).

Avere a disposizione e proporre da subito strumenti di Comunicazione Aumentativa Alternativa è indispensabile perchè permettono al bambino di controllare l’ambiente, di fare scelte e permettono a chi valuta di cogliere la sua modificabilità già nel corso di un primo incontro.

In questo senso la valutazione è già l’inizio dell’intervento e non termina con esso. Devono essere previste frequenti rivalutazioni perché cambiano le abilità cognitive, le condizioni fisiche e i bisogni del bambino e quindi occorre modificare strategie, strumenti e ridefinire gli obiettivi dell’intervento. Anche la scelta del sistema grafico, del formato della tabella, la selezione del vocabolario e la tecnica di indicazione sono processi in progressione. Ad esempio, un ragazzo con una grave forma di Paralisi Cerebrale Infantile di tipo distonico, non poteva più usare la tabella posta sul tavolo della carrozzina perché le sue braccia cresciute gli impedivano l’indicazione diretta. Il ragazzo non comunicava questo disagio per un atteggiamento di passività tipico di queste situazioni. Una volta compresa la barriera di accesso è bastato studiare una nuova tabella e un sistema di indicazione misto di sguardo e di scansione assistita, perché riprendesse ad usare la tabella che gli permetteva una comunicazione autonoma più ricca e non legata al solo contesto.

La valutazione in C.A.A. riguarda anche l’ambiente di vita. In pratica si devono valutare gli ambienti significativi per la persona con complessi bisogni comunicativi e la loro influenza sul suo funzionamento comunicativo, cognitivo e sociale. L’integrazione tra casa , scuola e luoghi di vita è cruciale per il buon esito dell’intervento di C.A.A . Il progetto deve essere condiviso da tutti e il primo luogo dai genitori. A volte questi sono in grado di cogliere minimi segnali comunicativi da parte del loro figlio e hanno sviluppato specifiche strategie comunicative. Non è sempre detto però che queste siano condivise negli altri contesti di vita in cui la persona passa molte ore della giornata. Il risultato è che le persone devono rinunciare a molte potenziali occasioni comunicative riservandosi di comunicare esclusivamente all’interno delle mura domestiche. Se, infatti, non esiste condivisione tra i partner comunicativi, la persona non può sperimentare coerenza, continuità e integrazione tra le varie esperienze comunicative.

Il progetto di CAA si costruisce sulle abilità presenti, ma non prescinde dalle difficoltà e dai punti critici. Entrambi vengono definite come barriere: l’intervento consiste anche nel cercare il modo di superarle.

Sono denominate barriere di accessibilità quelle che si riferiscono al bambino e riguardano l’aspetto comunicativo, cognitivo, apprenditivo, emotivo, sociale, sensoriale e motorio. La valutazione dell’aspetto motorio richiede una riflessione e una competenza specifica dal parte del team di C.A.A.

Le barriere di opportunità riguardano l’ambiente e riflettono l’insieme di politiche, leggi, prassi, attitudini e l’assenza di conoscenza e abilità. Queste barriere, limitando la piena partecipazione alla vita sociale delle persone disabili, impediscono la reale implementazione di un progetto di C.A.A. In un processo circolare una scarsa partecipazione significa scarsa esperienza di comunicazione, scarsa pratica di comunicazione e una scarsa acquisizione di competenza sociale.

Intervento focalizzato sull’interazione e sulla comunicazione

L’intervento deve essere focalizzato sull’interazione e sulla comunicazione – non sulla tecnologia. Le persone sono le componenti più importanti per sviluppare abilità comunicative; la tecnologia (low e high-tech) che spesso evoca aspettative magiche è solo uno strumento per la persona. L’acquisizione di strumenti tecnologici non si trasforma automaticamente in uno sviluppo della competenza comunicativa e delle reti sociali. Inoltre non permette mai ai bambini di realizzare le proprie potenzialità senza un training appropriato e un ambiente che ne supporti l’uso.

E’ ormai opinione condivisa che l’intervento debba essere svolto nell’ambiente di vita e quindi con i diversi partner comunicativi. L’intervento nella stanza di terapia non porta mai ad una generalizzazione delle abilità comunicative acquisite. Nell’intervento di C.A.A. gli strumenti e gli ausili trovano una loro utilità solo in funzione dei bisogni comunicativi della persona disabile. I bisogni comunicativi vanno valutati relativamente ai diversi partner e ai diversi contesti comunicativi. L’intervento non è misurabile con la capacità di usare strumenti di comunicazione, ma con il miglioramento della comunicazione funzionale e della competenza comunicativa.

Uno strumento che, in questo senso, permette di valutare gli ambienti di vita, le occasioni comunicative, i partner (familiari, amici, conoscenti, persone pagate e partner occasionali) e di programmare e monitorare un intervento mirato è il Social Networks. E’ stato pensato e proposto da Sarah Blackstone e da Mary Hunt Berg nel 2003 con lo scopo di valutare, sviluppare e sostenere in modo sistematico e facile, utilizzando interviste strutturate, le reti sociali perché è proprio sostenendo le reti sociali che si determina la qualità della vita delle persone con complessi bisogni comunicativi. Queste infatti, hanno bisogno di comunicare in modo differente con i diversi partners e quindi di modificare gli argomenti, le strategie e le modalità.

Il Social Networks aiuta anche ad individuare aree specifiche ed abilità da sostenere e ad identificare barriere ed opportunità all’interno delle reti e dei rapporti sociali. Spesso emerge come le persone che non parlano, hanno in generale pochi partner comunicativi e interagiscono per lo più solo con familiari e persone pagate e raramente con amici e conoscenti. Come strumento di pianificazione centrato sulla persona, il Social Networks aiuta a stabilire obiettivi clinici, a facilitare la pianificazione degli interventi e a costruire un accordo all’interno di tutte le persone coinvolte nel progetto di C.A.A..