Autismo: dopo 3 mesi rivede il figlio ospite di un centro residenziale

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La storia di Gianfranco Vitale è l’emblema della difficoltà e dolore che le famiglie con figli disabili ha dovuto vivere in questi interminabili mesi di emergenza sanitaria.

Riportiamo qui di seguito la storia di Gianfranco Vitale che dopo 3 mesi ieri è riuscito a rivedere il figlio di 39 anni con disturbo dello spettro autistico. Gianfranco sta inoltre avviando un’iniziativa legale collettiva per far valere i diritti di tutti i disabili.

25 Giugno 2020, Gianfranco Vitale:
PERCHE’ LA COLPA E’ ANCHE NOSTRA”

Buon giorno a tutti,
ieri, dopo più di tre mesi, previo appuntamento e in presenza di un operatore, ho potuto incontrare mio figlio Gabriele, autistico, ospite di una comunità residenziale in Torino. L’incontro si è svolto in un luogo neutro, all’esterno della struttura.
Appena arrivato ho dovuto avvertire telefonicamente un operatore e attendere qualche minuto prima di essere chiamato. Ho consegnato la confezione di brioche e quella di succhi di frutta, che avevo portato per Gabriele, come si fa quando ci si reca in ospedale per incontrare una persona malata.
Indossata la mascherina e sanificate le mani mi è stata misurata la temperatura, ho poi risposto per iscritto ad alcune domande fotocopiate su un foglio (l’autodichiarazione). A queste doverose precauzioni sono seguite le cosiddette regole del distanziamento sociale (le stesse che non vengono applicate al popolo delle movide che ha come protagonisti i “normali”) che mi hanno impedito di riabbracciare Gabriele, come avrei voluto, in quello che è stato un incontro la cui durata prefissata doveva essere mezz’ora.
Lascio immaginare il mio stato d’animo e quello di mio figlio. Sono stati trenta minuti, “concessi” dopo più di novanta giorni, emotivamente tra i più difficili della mia vita.

Nei giorni precedenti avevo molto riflettuto se utilizzare questa opportunità, consapevole del rischio che mio figlio potesse non reggere la tensione accumulata finendo per subire danni ben maggiori rispetto ai teorici benefici. Alla fine ho scelto di rischiare piegandomi a quello che considero un vero e proprio ricatto che però, ci tengo a sottolinearlo, non attribuisco affatto alla sola responsabilità della direzione sanitaria della struttura ma a un concorso di colpe ed omissioni, per così dire “superiori”, su cui varrebbe la pena riflettere, come cercherò di fare più avanti, in modo serio.

Tanti sembrano oggi consapevoli di quanto sia inaccettabile che in una fase di graduale superamento della curva di contagio da Covid-19 continuino ad essere trascurate le drammatiche condizioni in cui vivono moltissime famiglie e tantissimi disabili. Le prime letteralmente abbandonate a se stesse, stante la lunga chiusura di centri diurni e scuole; i secondi, soprattutto adulti, impossibilitati fino a pochi giorni fa a incontrare i loro cari (ammesso che ora si possa parlare di incontri…) per effetto di disposizioni tanto più incomprensibili perché accomunano le RSA alle RSD (quasi come se un trentenne disabile, che vive in una comunità alloggio o in un centro residenziale accreditato per l’autismo, come in questo caso, fosse portatore del medesimo rischio di salute di un ottantenne con pluripatologie..

Alla luce di questa presunta consapevolezza pongo due domande: 1) è ammissibile che i Comuni continuino a ritardare l’apertura di molti centri diurni, incuranti delle ripercussioni che ciò comporta anche per i familiari? 2) è’ tollerabile che le Regioni omettano di dare disposizioni vincolanti alle RSD, assimilandole in modo ibrido e innaturale alle RSA,, con l’appendice di Direzioni Sanitarie allineate e appiattite su una linea di isolamento sociale e di drastica riduzione delle attività che sono esattamente l’antitesi di un corretto approccio all’autismo? Non occorre molta immaginazione nel pensare che quello delle Direzioni Sanitarie delle residenze rappresenta solo il tentativo di sottrarsi a responsabilità che mai accetterebbero di assumersi perché, e non hanno torto, sono in capo alle Regioni.

In attesa che questo palleggiamento, questo gioco del cerino acceso, che passa di mano in mano, termini, c’è da chiedersi che fine abbiano fatto i mitici comitati scientifici, i grandi professoroni, i tecnici illuminati della salute e dell’educazione speciale, persino i guru dei social abituati a pontificare. Mai letta una loro dichiarazione, fosse solo di larvata presa di distanza.
E le associazioni? Sia le vecchie che le “nuove” si sono limitate alle solite dichiarazioni di intenti e in qualche caso alla pubblicazione di articoli sicuramente condivisibili ma la cui ricaduta, da sola, non poteva che rivelarsi insufficiente. Nè destino migliore c’era da spettarsi dalla stesura di pletorici documenti indirizzati alle massime cariche istituzionali rimasti, infatti, lettera morta, carta straccia che ha reso stracolmi i già pieni cestini di funzionari e portaborse.

Si sarebbe potuto fare di più? Probabilmente si. Faccio questa affermazione con la consapevolezza che nessuno ha la verità in tasca ma con la certezza che i settarismi e le divisioni non giovano ad alcuno tranne che alla controparte. Dalle colonne della mia pagina Facebook ho continuamente lanciato appelli ad iniziative unitarie tra le associazioni e i movimenti: tutti, sempre, regolarmente disattesi. La ragione, io penso, è che ognuno tende a marcare il proprio territorio, impedendo all’altro di avvicinarsi per non compromettere rendite di posizione acquisite o da acquisire.
Davanti a questo atteggiamento ho persino provato ad assumere in prima persona qualche iniziativa, pur sapendo che c’è una bella differenza tra farlo in qualità di singolo genitore e proporlo invece come associazione. O no?

Tre, secondo me, erano, e restano, i livelli di gestione possibili di una fase così delicata e complessa. Quello istituzionale (intendo gli incontri con Servizi e Istituzioni locali e nazionali, volti all’emanazione di provvedimenti finalmente significativi); quello di una mobilitazione nelle piazze, quello legale.
Esaurito il primo (con un esito a dir poco insoddisfacente, checché ne dicano le dichiarazioni trionfaliste di alcune organizzazioni nazionali, tipo Fish e/o Anffas) rimanevano gli altri due.
Ci sono stati alcuni flash mob e iniziative sul territorio che non hanno però avuto il risalto e la continuità necessarie, soprattutto in assenza del sostegno delle associazioni maggiori, vecchie e “nuove”, sempre timorose di esporsi. Peccato, perché in compenso le istituzioni, sotto la pressione delle lobby, non si sono fatti scrupolo di assicurare nel frattempo la ripresa del campionato di calcio, delle palestre, delle discoteche, di quasi tutte le attività produttive. Sono rimasti fuori e calpestati – come sempre – solo i diritti delle persone disabili.


A questo punto non restava che giocare l’ultima carta: l’azione legale.

Ed ecco sulla mia pagina il post pubblicato il 9 giugno (https://www.facebook.com/autismoIN/posts/2993032437449827?__tn__=K-R ) di cui riporto uno stralcio: “Vi chiedo di ragionare sulla fattibilità di costruire un percorso che preveda la presentazione di una lettera/notifica al centro diurno/residenziale (in cui si chiede la riapertura), e la successiva denuncia all’ASL, alla Regione e al Governo in caso di risposta evasiva.
Per avviare questo iter (parlo dell’istanza iniziale della famiglia al centro diurno/residenziale) è opportuno utilizzare un modello di azione legale comune a tutti, previo conferimento di un mandato ad hoc.
Potremmo perciò metterci in contatto con un avvocato che si è già dichiarato disponibile a darci una mano gratuitamente. Io potrei fornirvi la mail di una mamma molto impegnata su questo versante, a cui chiedere ulteriori indicazioni, che potreste contattare anche via Messenger (è madre di un figlio autistico)”.

Invito ora a rileggere in particolare il paragrafo: “Potremmo metterci in contatto con un avvocato che si è già dichiarato disponibile a darci una mano gratuitamente”. Riscrivo qui l’ultima parola con le maiuscole: GRATUITAMENTE.

Vi do dei dati: il post (sulla sola mia pagina) è stato raggiunto da 12555 persone, ha goduto di 1150 interazioni, 140 “mi piace”, 49 commenti, 64 condivisioni. Personalmente ho ricevuto una valanga di consensi tramite whatapp e messenger. Ma il risultato finale, in definitiva l’unica cosa che contava, qual è stato? Non hanno risposto più di dieci persone all’appello volto ad avviare l’azione legale. Persino chi, con me, ha promosso l’iniziativa si è defilato il giorno dopo, lasciandomi solo (per fortuna non la mamma di cui avete letto): vergogna! Non mi è rimasto che ringraziare il legale per la vicinanza e la solidarietà e… “scusarmi” con lui (anzi: con lei, visto che è una donna).

A questo punto consentitemi una domanda e una brevissima risposta: “Davanti a una realtà così drammatica, qual è quella che attraversiamo, che senso ha limitarsi a cliccare un banale “mi piace”? Che senso ha esprimere totale apprezzamento per un’iniziativa se poi non si fa nulla per farla andare avanti? Che senso ha lamentarsi di questo e di quello senza assumere un comportamento coerente, a cominciare dal coraggio di metterci la faccia in prima persona?”.
La mia risposta è: “Non ha nessun senso”! Siamo davanti al solito deja vu, a uno squallido “armiamoci e partite” che segna la nostra ennesima occasione perduta. La verità è che noi, ciascuno di noi, siamo responsabili – con i nostri silenzi – di avallare le scelte becere della politica e quelle opportuniste di un sistema che va molto oltre la politica. Molto più giusto, anche se più difficile, sarebbe contare su meno “mi piace” e su più persone in carne e ossa che comprendono il bisogno di unirsi nella lotta per sconfiggere l’ignavia di un sistema.

Questo è il mio pensiero, queste sono le cose che mi sono passate per la mente l’altra sera mentre, umiliato e deluso, rientravo a casa dopo aver visto per mezz’ora mio figlio. Di fianco a me osservavo macchine e pedoni: si recavano allegramente in centro, dove a ridosso di mezzanotte ci sarebbero stati i festeggiamenti per San Giovanni, patrono della città di Torino. Domani leggeremo la solita ridicola condanna del governatore del Piemonte e quella del sindaco di Torino per gli immancabili assembramenti, ma domani si sa… è un altro giorno, per lo meno lo è per i “normali”.
Mentre guidavo ho scorso gli istanti in cui mio figlio mi ha sorriso nel vedermi, poi quelli in cui malinconicamente ha visto la mia macchina allontanarsi. Mi sono asciugato gli occhi.

Io ho 71 anni, Gabriele 39: due vite sprecate!